La Cava: "Dico tutto. Senza portare 30mila euro non si allena. Calcio malato, non mi arrendo. Il mio sogno era il Pianura dei Cafasso"

07.11.2017 07:00 di Marco Pompeo Twitter:    vedi letture
La Cava: "Dico tutto. Senza portare 30mila euro non si allena. Calcio malato, non mi arrendo. Il mio sogno era il Pianura dei Cafasso"

Quando si sceglie di fare un'intervista si sà, solitamente, da dove si comincia ma mai, o quasi, dove si finisce. E' accaduto anche stavolta. Abbiamo contattato il tecnico Sergio La Cava per una chiacchierata sulla Serie D ma prima ancora di cominciare il viaggio ha cambiato meta per una lunghissima intervista davvero interessante.

Come sta?
“Direi incavolato. Purtroppo il calcio è cambiato e questo influisce sul lavoro di tutti quelli che come me hanno difficoltà a piegarsi allo status quo”.

Ci perdoni di cosa ci sta parlando?
“Del fatto che il calcio è malato. Più sei una persona seria e più in questo sistema fai fatica a lavorare. Non parlo solo di me ma di tanti miei colleghi che non si vedono più sulle panchine delle squadre di calcio. Mi rendo conto che oggi però è la vita che va così. Nel momento in cui fai certe furbate e non sei ligio alle regole agli occhi degli altri sei un dritto e non un mascalzone. Nel calcio funziona alla stessa maniera”.

A questo punto ci dica tutto…
“Certo, io non ho alcun problema. Da dove vogliamo cominciare?”

Se parliamo di lei… cominciamo dalla fine. Il suo è uno sfogo per quanto le è accaduto personalmente, con l’ultima avventura risalente al precampionato del Barletta?
“Ovvio che parlo a titolo personale. Io posso parlare solo per ciò di cui sono stato protagonista, non mi permetterei, come invece fanno in tanti, di fare esternazioni solo per sentito dire. A Barletta il mio lavoro non è giudicabile perché ho fatto solo venticinque giorni di ritiro. Facendo sempre il mio lavoro, insieme al mio staff, con puntualità e senza lesinare impegno ed energie. Accettai l’offerta perché si tratta di una piazza importante, a cui auguro di ritornare presto tra i professionisti perché lo meritano. Quel poco tempo che sono stato lì ho avuto modo di apprezzare la città, meravigliosa, ed i tifosi che ho scoperto essere competenti ed appassionati. Purtroppo esistono personaggi in questo calcio che fanno promesse di cui gli allenatori non sono a conoscenza e credo sia quanto è capitato a me col Barletta. Per me conta la meritocrazia, nel calcio come nella vita, e gioca chi merita di giocare. Pensi che io sono contrario anche alla regola degli under…”

Questo ci interessa molto. Ci spieghi…
“Penso sia una norma errata. Molti ragazzi giovani sono costretti a stare in una rosa pur non essendo pronti per questo. Le società dal canto loro li prendono perché costretti dal regolamento. Per me è assolutamente sbagliato. Se un calciatore è bravo deve giocare a prescindere dall’età. Quanto allenavo a Torre del Greco per esempio, io giocavo con un under in più rispetto al numero obbligatorio. Questo perché chi giocava lo meritava. Inoltre, imponendo certi percorsi spesso ci si ritrova a schierare obbligatoriamente ragazzi non pronti, che finiscono col bruciarsi solamente così. A questo si aggiunge un altro grave problema: quello che spesso i genitori pur di far giocare i loro figli portano soldi in dote alla società di turno. Ovviamente il club poi è prigioniero di questo modo di operare e si ritrova costretto a far giocare degli elementi che concorrono a far naufragare il progetto tecnico”.

E lei come si comporta con gli under?
“Nelle mie squadre ho sempre cercato di inculcare, lo feci anche a Barletta, che i ragazzi non devono andare in campo per forza. Il posto in squadra bisogna conquistarselo sul campo al di là delle regole. Questa regola ha infatti portato anche un altro risvolto negativo: spesso mi è infatti capitato che durante la settimana i calciatori esperti sudassero mentre gli under, chi per un dolore al ginocchio, chi per un fastidio alla caviglia, battessero la fiacca”.

Tornando indietro accetterebbe ancora Barletta?
“Con le informazioni che avevo all’inizio sì. Ho scelto di allenare una rosa di giocatori non scelta da me ma che, ancora oggi, sono convinto, avremmo potuto disputare una grandissima stagione e con qualche piccolo ritocco avrebbe potuto vincere”.

Lei ha parlato di calcio malato, e non è il solo. Ci sa spiegare dove si annida il male?
“Mi verrebbe a me di fare una domanda…. Non notate mai che certi personaggi finiscono col possedere società diverse, spesso anche importanti, e girovagare lo stivale facendo danni ovunque loro mettano piede? Perché ciò accade? Perché si sente dire nel calcio spesso di un allenatore che va via dopo quattro, cinque partite? Sarà mai che magari ha promesso soldi che poi non ha potuto garantire alla società? Non sarebbe meglio fare il proprio mestiere e farsi pagare? Chiunque sia in questo mondo sa quali problemi bisogna affrontare e risolvere”.

Si potrebbe malignare che le sue parole sono dettate dalla situazione contingente che attraversa la sua carriera, non crede?
“Come ho detto, sicuramente c’è chi parla senza conoscere i fatti. Altro grande problema del nostro mondo. Le mie ultime esperienze sono state sicuramente poco fortunate ma il calcio inteso come gioco entra in queste vicende davvero poco. Vogliamo continuare a ritroso?”.

Bene, allora andiamo a Picerno…
“Arrivai a Picerno dopo una telefonata fatta col presidente, che vive negli Stati Uniti. Per me è stata una delusione che a poco a che vedere con il dato sportivo. Purtroppo la società non mi ha tutelato facendomi però credere di si. Facciamo la prima partita a Francavilla, un calciatore, legato alla precedente gestione, da un pugno ad un avversario e finiamo in dieci. Il primo tempo riusciamo a restare in gara (1-1), poi arriva il loro nuovo vantaggio, noi, rimasti addirittura in nove, riacciuffiamo il pareggio e poi con due rigori contro perdiamo 4-2. Dopo quella gara la società allontana sei giocatori, mi fu detto che era meglio fare così perché si trattava di atleti troppo vicini al precedente allenatore e che, con la speranza tornasse, non avrebbero dato il massimo in campo. Bisognava rifare la squadra e la società acconsentì, nel frattempo andammo avanti come potevamo in piena emergenza e raccogliemmo anche la vittoria contro il San Severo allora terzo in classifica. Ricordo che lavorammo col mio staff anche durante le feste di Natale. La prima partita con la squadra rivoluzionata giocammo male, come i nostri avversari del resto, e perdemmo nonostante due pali, una traversa e diverse occasioni create. Lì la società decise di esonerarmi, peccato che i patti non fossero questi. Quella era la prima gara con la squadra che io avevo voluto, con i giocatori che io avevo scelto. Era stato concordato che avrei avuto il tempo di assemblare e dare forma alla nuova squadra. Così non è stato”.

Facciamo una pausa. C’è stato un passato recente in cui lei era molto richiesto. Giusto?
“Sì, è vero. Io ho fatto la gavetta, sono partito dal settore giovanile, vincendo tutto e conquistando il “Seminatore” campano. Poi dalla Prima Categoria, sono arrivato rapidamente in Serie D dove ho avuto la fortuna, salvo le ultime esperienze, di fare sempre bene con squadre che non partivano certo per vincere il campionato e che io ho sempre portato ai vertici”.

Ed ultimamente qualche società ha chiamato La Cava?
"Sì, anche se non direttamente i presidenti. Diciamo solo che nell'ultimissimo caso mi è stato riferito che senza portare trentamila euro non avrei avuto possibilità di sedermi in panchina".

C’è una squadra che avrebbe voluto allenare?
“Il mio sogno era di allenare il Pianura presieduto dai fratelli Cafasso. Persone serie, probabilmente le ultime, che hanno calcato il palcoscenico calcistico nostrano. Dirigenti ambiziosi che hanno sempre operato per fare grande calcio. Sui giornali sono stato accostato in diverse occasioni al club flegreo ma non c’è mai stato nulla di vero e, come detto, mi spiace perché sarebbe stato un sogno allenare quella squadra alle dipendenze di dirigenti preparati. Ci sarei andato a piedi”.

Chiudiamo con l’ultima sua “disavventura”. La tappa prima del Picerno: l’Isola Liri.
“Lì ho avuto un impatto importante. Arrivai con la squadra penultima e facemmo quattro vittorie di fila scalando subito la classifica. Mi sono dimesso io, sono andato via ed anche lì fu detto che io litigavo con tutti. Non è vero ovviamente, io me ne andai perché non ero d’accordo con quanto accadeva in società e tutti ricordano poi cosa è successo con personaggi tutt’ora sotto inchiesta. Io in campo vado sempre per vincere e quando ciò non è possibile, perché non ci sono le condizioni, allora tolgo il disturbo. Questo è esattamente ciò che accadde”.

Come si cambia questo calcio?
“Non accettando più compromessi. Lo dico anche a tutti i miei colleghi. Facciamo piazza pulita, è arrivato il momento di dire basta. Ovviamente anche chi fa le regole dovrebbe decidere una volta e per tutte di affrontare un problema che si riverbera poi a tutti i livelli del sistema calcio compreso la mancata crescita di talenti. Se decidessero di penalizzare con quindici punti le società che accettano tesserati dietro compenso e squalificassero per tre anni tecnici e calciatori che portano lo sponsor per lavorare allora le cose cambierebbero in fretta perché il rischio non varrebbe l’impresa. Io non mi arrendo e continuerò a fare il mio lavoro ma sempre a testa alta”.