Talvolta bisogna fare mea culpa. Troppo spesso capita, soprattutto da diversi anni a questa parte, che, coloro i quali raccontino lo sport, giornalisti e non solo, tendano a farlo con una superficialità che poi, a cascata, si riverbera in chi legge allargandosi a macchia d'olio. Facendo, così, tutt'altro che il bene proprio, del lettore e, soprattutto, dello sport che si vuole raccontare. Si resta "appiccicati" in rapporti di facciata tenuti in piedi da presunti do ut des che finiscono per trasformarsi in sbarre spesse che imprigionano quel che resta della volontà di incidere, di fare la differenza, di raccontare affinché altri possano attraverso quel racconto appassionarsi. Per tale ragione, quando si ha la possibilità di parlare con chi ama il calcio, chiunque esso sia e qualunque siano le sue idee, che esse ci trovino concordi o meno, è sempre prezioso poter ascoltare. E se parliamo di amore per il calcio di sicuro dobbiamo annoverare nella schiera dei suoi amanti più viscerali il tecnico Archimede Graziani.
Lei ha fatto della comunicazione un aspetto importantissimo della sua professione. "Le competenze comunicative dell'allenatore di calcio" è una interessante lettura a tal proposito che la vede autore per il master prima categoria UEFA Pro. Oggi i social occupano una fetta sempre più grossa di questo aspetto, eppure lei non usa questi canali né altri new media. Ci spiega il perché?
«Perché i social non li uso, non li voglio usare, non li ho mai usati. Con le persone mi piace parlarci direttamente e soprattutto non deve essere attraverso un messaggio decodificato e con un determinato numero di caratteri che si esprimono i pensieri. La comunicazione è completa per me quando è accompagnata dalla mimica espressiva del viso, del corpo, degli occhi. Un like, una emoticon sorridente o queste cose qui quindi le rifiuto».
Nelle sue interviste ha spesso parlato di persone perbene e non. Nel mondo del calcio quale categoria di persone ha avuto modo di incontrare più facilmente?
«Ho incontrato tante persone molto per bene e quando ho incontrato le persone per bene ho fatto sempre risultati. Quando ho incontrato le persone "per male", non mi hanno lasciato niente, o quasi, anche quando ho fatto i risultati. Ciò che realmente ti lasciano questi soggetti è un rammarico molto grosso».
Se Archimede Graziani in questo momento non sta allenando è colpa anche delle persone "per male"? Specifico: nel mondo del calcio non di rado ci si trova in condizioni di operare con approssimazione, avendo sempre più a che fare con persone non preparate. Concorda?
«Sono fermo perché in parte l'ho voluto io, in quanto non ho trovato la situazione giusta per poter dare continuità al mio lavoro. E lavorare tanto per lavorare penso che non serva a nessuno. Riguardo alla sua osservazione devo dire di sì, purtroppo negli ultimi tempi più gente che non "sa" lavora. Per me le risposte sono molto semplici, perché poi rispondono alla realtà. È più facile confrontarsi con chi non "sa" che con chi "sa", è più facile confrontarsi con chi accetta compromessi e tutto quanto gli viene propinato rispetto a chi magari sa già come poi va a finire in determinate situazioni. Penso che l'esperienza ci abbia insegnato a tutti qualcosa, se non insegna è un problema. Le persone scelgono sempre la strada più semplice e, quella lì, è una delle strade più semplici».
Ha preferito restare fermo piuttosto che accettare situazioni poche chiare, da questo punto di vista è un Archimede Graziani maturato rispetto al passato? Col senno di poi magari avrebbe fatto altre scelte di carriera negli anni scorsi.
«Maturato sono nato maturato e quindi non è che che mi serve un'esperienza per maturare di più o di meno. Nessuna delle scelte che ho fatto la rinnego, perché ognuna di esse, sia quelle positive che quelle risultate negative, mi hanno insegnato qualcosa. Secondo me la cosa migliore, ma non penso solo nel calcio quanto nella vita, è farle le esperienze. Io da ogni mia avventura professionale ho tirato fuori qualcosa. È normale che dentro di me c'è sempre la voglia di lavorare, e di lavorare in un certo modo. Ci sono dei periodi che bisogna sapere aspettare che ritorni il proprio momento».
In attesa del ritorno suo "momento" cosa sta facendo?
«Nel frattempo io devo sempre ringraziare in maniera importante il settore tecnico perché quando non alleno mi permettono di fare il docente ai corsi allenatori. Non è perché uno rimane fermo, non ha più conoscenze. Io faccio il docente ai corsi allenatori e questa cosa qui, che tutti quanti vorrebbero fare ma tanti non sono capaci di fare, è per pochi. Vuol dire che in una scuola mondiale come Coverciano hanno pensato bene che Graziani avesse anche le qualità per insegnare. Cosa che tante volte impaurisce e, soprattutto, quando si fa il confronto con chi "sa", se qualcuno non "sa" ci lascia le penne. Ed io devo ringraziare il settore tecnico di Coverciano che mi dà questa opportunità perché per fare questo io devo essere più che aggiornato. Devo essere a conoscenza di tutto e di più. E, quindi, in questo momento qui mi manca solo il campo».
Quale caratteristica deve avere un progetto sportivo per farla tornare a sedere in panchina?
«Il lavoro per me è la cosa prioritaria. Quando prendi un allenatore devi farlo lavorare. Ma non "lavorare" come vogliono gli altri. Lavorare come vuole lui. Servono persone serie».
Si parla tanto di riformare il calcio, ma al di là del numero delle squadre come si salva il calcio italiano da questo declino tecnico e non solo?
«Ancora una volta io vado contro corrente se posso. Il calcio italiano tecnicamente non è in declino. Il calcio italiano propone e mostra un calcio di primo livello. Qui bisogna aprire una parentesi grossa, perché secondo me tutti gli allenatori, o gran parte degli allenatori, sono portatori di un calcio sano e conoscitori di un calcio sano, di un calcio vero, di un calcio tecnico, di un calcio tecnico-tattico, di un calcio attuale, perché il calcio non finisce mai di evolversi. Io sono dell'idea che, invece, c'è l'altra parte del calcio che forse non si aggiorna, tanto quanto si aggiornano gli allenatori, e, quindi, rimangono su delle idee che vanno riviste».
Quindi per lei sforniamo ancora dei buoni calciatori e non riusciamo a valorizzarli?
«Fino a un po' di tempo fa pensare che un calciatore di interregionale o di serie C andasse a giocare in Serie A non era fattibile. Ma non era fattibile perché chi li sceglieva pensava che non erano all'altezza. Invece, secondo me il calcio è globale. Se uno va a vedere una partita, c'è quel giocatore, o quei giocatori, che poi possono giocare in categoria superiore. Sento parlare che i ragazzi della Primavera non possono giocare nelle prime squadre. I ragazzi della C non possono giocare in B, i ragazzi dell'interregionale non possono giocare in C. Ma una riflessione è questa: qual è quel lavoro che non permette adattamento? Nessuno. Se io trovo un calciatore, anche nelle categorie inferiori, gli devo permettere a questo giocatore qui poi di adattarsi alle categorie superiori. Basta che abbia una componente fondamentale, secondo me, che abbia la tecnica di base. Perché tutto il resto nel calcio lo si può insegnare. Ogni allenatore insegna la tattica come vuole. Ma se non hai tecnica è inutile continuare a insegnare la tattica. Allora io quando vado a vedere le partite guardo prima di tutto se il calciatore è abile tecnicamente. E secondo me quelli abili tecnicamente possono giocare in qualsiasi categoria. Chi fa tanta distinzione limita le altre persone. Soprattutto limita i calciatori».
C'è un argomento che mi sta particolarmente a cuore: i giovani ed il calcio. L'ultimo trend sembra essere quello di smantellare la regola che impone l'utilizzo obbligatorio dei cosiddetti "under". Secondo la sua esperienza di campo, questa norma ha prodotto risvolti negativi, positivi oppure magari è stata una buona norma interpretata male?
«Prima di tutto è stata una norma che ha illuso tantissime persone. Perché molti ragazzi hanno giocato a calcio finché erano in quota e poi, dopo, non hanno più giocato a calcio. Secondo, ha aperto un canale di cui nessuno vuole parlare ma è bruttissimo. C'è stato qualcuno che per far giocare certi ragazzi ha pagato e da lì è nata una moda. Quella di dire: "Ti do questo giocatore, buono o non buono non importa tanto paga". E lì si è aperta una voragine. Io sono dell'idea che deve giocare chi è bravo. Non si guarda l'età, né la data di nascita, si guardano le capacità dei calciatori. Chi non ha capito questo dovrebbe fare lui una riflessione, non noi. Chi ha sbagliato questa cosa qui, nella normalità delle cose, si chiama scemo».
La moda di cui parla lei, diciamocelo fuori dai denti, è diventata prassi anche tra gli allenatori soprattutto tra i Dilettanti.
«Questo è uno dei motivi del perché delle volte rimango fermo. Il giorno che dico qualche cosa solo a mio favore, o che è falsa, smetto di fare anche le interviste. È la verità. Quando io sono rimasto fermo è perché qualcuno imponeva qualcosa, o io non accettavo le imposizioni. Bisogna capire che ci sono procuratori che prendono allenatori e li mettono sul mercato per fare altro. Questa qui è una certezza non è un dubbio. Chi dice che questo non esiste sta mentendo. Chi, invece, risponde facendo il moralista è dentro questo sistema altrimenti deve ammettere che è la verità. Il sottoscritto più di una volta si è alzato e se ne è andato».
Una volta lei disse che il bello del calcio è il calcio. A questo punto la domanda è lecita: pensa ancora sia così?
«Sì, per il semplice fatto che se si guarda solo il calcio, e cosa c'è dentro al calcio, e certe persone che lo fanno, il calcio è la cosa più bella del mondo. Però bisogna vederlo con gli occhi di un bambino alle prime armi che gioca. Giocare. È la parola più bella. Ed a me piace ancora vederlo così. Per questo lo vedo un po' diverso magari dagli altri. Perché mi piace il gioco del calcio, mentre gli altri, nel gioco del calcio, ci vedono tutto il resto. Noi allenatori siamo i più bravi del mondo. Abbiamo un solo difetto: che dobbiamo copiare dagli altri quello che non riusciamo a fare. Ma noi siamo i più bravi del mondo perché chi ha idee le può mettere in pratica, e noi siamo i primi ad avere idee. E la scuola di Coverciano ti insegna questo».
Autore: Marco Pompeo / Twitter: @Marco_Pompeo
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