Torna a parlare, e con piacere nostro e dei nostri lettori lo fa con la redazione di NotiziarioCalcio.com, uno dei decani del calcio italiano, Agenore Maurizi, un allenatore che ha lasciato un segno importante nel panorama della serie D ma, soprattutto, della serie C. Dalla Massese alla Reggina, passando per Cavese, Paganese e più recentemente Roma City, il nome di Agenore Maurizi evoca subito esperienza, competenza e una profonda conoscenza delle dinamiche spesso complesse di questi campionati. Con oltre sedici squadre allenate in carriera, Maurizi ha vissuto in prima persona le gioie, le sfide e le trasformazioni del nostro calcio. Una chicca: Maurizi è uno dei pochi allenatori ad aver conseguito due master: quello per il calcio a 11 ma anche quello per il calcio a 5.
Lei è uno dei pochi allenatori ad aver conseguito due master, non solo calcio a 11 ma anche calcio a 5. Come ha iniziato questo lavoro?
«Da calciatore ho fatto qualche presenza in serie C e poi la D. A ventisette anni per necessità, e non me ne vergogno, ho continuato la carriera nel calcio a cinque. Per allenare, terminata la carriera da calciatore, sono partito dalla preparazione. Una preparazione su cui ho investito andando ad osservare gli allenamenti delle principali squadre europee ed italiane. Tra le esperienze più formative ricordo quella col Benfica. E poi ho cominciato ad allenare e devo dire che non mi sono mai fermato allenando ininterrottamente per oltre venti anni».
Ultima esperienza. La passata stagione col Roma City numeri non così lontani dalle prime nove di questo campionato eppure è arrivato l’esonero dopo il successo con la Fermana.
«L'esonero me lo aspettavo perché un allenatore dipende dai risultati e noi non eravamo in linea con gli obiettivi stagionali che ci eravamo prefissati».
Non in linea coi risultati ma le prestazioni in campo ci sono state.
«Indipendentemente dagli obiettivi stagionali, la squadra quest'anno era stata messa su in maniera ottima. Mancava qualcosa secondo quello che era il mio punto di vista ma potevamo fare un campionato davvero importante. Abbiamo sbagliato più per esperienza un paio di partite, col Sora in casa e forse la gestione della partita di Termoli, però era una squadra che giocava un buonissimo calcio. Abbiamo avuto degli infortuni che purtroppo sono arrivati tutti nel reparto offensivo. Abbiamo avuto l'infortunio di Piccioni cinque-sei mesi fermo, Fontana quattro mesi fermo, Camilli ha avuto una frattura... questo non vuol dire cercare alibi ma forse avevamo bisogno di più tempo per esprimere il nostro potenziale anche se poi abbiamo fatto delle ottime gare. A San Benedetto abbiamo fatto una partita spettacolare, con L'Aquila in casa abbiamo fatto una partita importantissima. Abbiamo pareggiato col Teramo, vinto tre partite in casa bene. In Coppa, quando eravamo al completo, abbiamo vinto con merito giocando un ottimo calcio contro la Cynthialbalonga. Io ho fatto i miei errori, ci mancherebbe. Dico però che la continuità poteva far sì che questa squadra raggiungesse risultati importanti».
In generale, il mondo del calcio, soprattutto a certe latitudini come la serie D, declina la parola programmazione in maniera emblematica.
«Nel mondo del calcio penso si proceda per obiettivi. Se l'obiettivo è valorizzare i giovani, dare loro minutaggio e salvarsi, tu quando hai raggiunto l'obiettivo hai fatto il massimo. Se, invece, vinci un campionato, o centri i play-off o a lottare per posizioni importanti, questo significa che hai fatto meglio dell'obiettivo prefissato. E qui parlo di struttura non solo dell'allenatore, significa che l'intero complesso ha fatto meglio: parlo dallo staff tecnico a quello dirigenziale, compreso lo staff medico ed i magazzinieri. Tutti, nessuno escluso. Tutti possono incidere a far sì che le prestazioni dei calciatori siano superiori. L'allenatore, i calciatori ed il direttore ovviamente contribuiscono in una percentuale maggiore chiaramente. Però quando si fissano gli obiettivi poi si valuta in base a questi se si è fatto bene o male... Gli obiettivi sono alla base di un rapporto lavorativo tra staff tecnico e club e servono a fare un bilancio del lavoro svolto».
Perché aveva scelto di tornare in serie D sposando il progetto Roma City?
«Io ho scelto di scendere di categoria per contribuire a vincere un campionato. Dopo anni di risultati sui campi, a lottare in serie C, che è il mio target, a valorizzare giovani (alcuni arrivati anche in Serie A, n.d.r.) volevo vincere un campionato ed ho sposato il progetto per questo anche se le cose poi non sono andate così come ci auguravamo tutti».
E, invece, è arrivato un esonero che non le capitava da tempo. Giusto?
«Sì, erano sette anni che non venivo esonerato tra serie C e D. Non so se sia un record anche questo ma sicuramente è qualcosa che mi fa piacere».
In generale in questa stagione tanti esoneri, dalla serie A a scendere. Che sintomo è?
«Diciamo che più si scende di categoria e più questo è un fenomeno che si evidenzia con numeri da non sottovalutare. Il punto è questo: il termine progetto può essere definito come a lungo termine o a breve termine. Se si investe in dei giovani prospetti, in un certo tipo di calcio, parlo di idee, va dato tempo perché c'è bisogno di tempo per realizzare quanto ci si è prefissati. Se poi il progetto è a breve termine, c'è ad esempio bisogno di lottare subito per vincere qualcosa allora bisogna investire su giocatori pronti, che possano contribuire nell'immediato alla realizzazione del progetto. Poi se si arriva secondi però è un fallimento è va sottolineato. Il Bologna è oggi un esempio da seguire perché il progetto lo declina con la programmazione. Quindi si fissa un obiettivo ad esempio a tre anni, puntando ad un certo stile di gioco. C'è mancanza di obiettività spesso poi nel giudicare uno staff tecnico e penso che questo soprattutto porta a tantissimi cambi di allenatore. In C l'Ascoli ha fatto quattro cambi, i risultati sono sempre gli stessi. Il Campobasso ha fatto tre cambi? I risultati sono pure peggiorati ma non per responsabilità di chi subentra ma per una questione fisiologica. Ogni dieci cambi uno-due vanno bene ed altri sette-otto vanno male».
Guardando alle principali squadre italiane, qual è il suo stile di gioco?
«Quello dell'Atalanta. Il mio Roma City giocava uomo contro uomo. Su questo aspetto voglio dire però che non esiste uno stile di gioco migliore di un altro, sono semplicemente diversi. C'è un diverso modo di interpretare la partita e di stare in campo ma non si può dire che uno stile di gioco sia superiore ad un altro».
Viriamo leggermente. Se dovesse indicare un fattore esterno che tra C e D complica il lavoro di un allenatore, quale sarebbe?
«In serie D sicuramente il calciomercato che ormai è sempre aperto. Un giocatore oggi non gioca tre partite e chiede di essere ceduto. È diventato un costume. Se le rose sono di ventitré, ventiquattro giocatori, in D il regolamento dice che venti vanno in lista e quindi quattro, a ranghi completi, finiscono in tribuna. E questo è il regolamento. I club dovrebbero chiarire la situazione dall'inizio».
Da tempo ormai si parla di riforme dei campionati. Tenendo il focus su serie C e D, lei cosa pensa dell'attuale format di questi due tornei?
«Non è possibile che su sessanta squadre di serie C, tre vadano in B ed un’altra ci arriva attraverso un play-off di ventotto squadre. Anche perché è un inganno totale. È vero che tu sulla carta dai la speranza a tutti di poter salire ma il novantanove percento delle volte poi alla fine sale la squadra più attrezzata. Qual è allora l'obiettivo di chi va a fare i play-off? Stessa cosa per quelli che si disputano in serie D, qual è il loro reale obiettivo? Chi li fa spera di vincerli per risultare in una posizione migliore nella graduatoria ripescaggi dove si attende di poter essere ripescati nell'ipotesi che due squadre di C non si iscrivono al campionato. È un obiettivo normale? È un obiettivo che va bene dal punto di vista strutturale? Vinci o perdi i play-off cosa cambia? Forse solo lo status di tecnici e giocatori».
Tra le due categorie c'è una differenza importante?
«Sicuramente quella contrattuale. In serie C ci sono molte più tutele, il trattamento di fine rapporto, l’Inail in caso di infortunio, i pagamenti che hanno delle scadenze obbligatorie. Lo status lavorativo è diverso da un punto di vista contrattuale ma identico per tutto il resto. Ci si allena allo stesso modo, per lo stesso numero di giorni ed ore. Dalla serie A, B, C e D ci si allena e si lavora tutti i giorni, non solo lavorano i giocatori ma anche lo staff medico, i magazzinieri... In D ci sono società che pagano entro il 30 giugno e se saltano nemmeno riesci a prendere i soldi. Non va bene, ognuno deve essere regolarmente pagato per la mansione svolta. Quindi la norma che prevede pagamenti tassativamente prestabiliti è una regola che dovrebbe essere estesa dalla serie C alla D dove invece non è regolata».
Torniamo al girone F. La Sambenedettese veleggia verso la serie C. Campionato ormai chiuso?
«Secondo me sì. Anche se c'è lo scontro diretto tra Teramo e Sambenedettese a Teramo. Il vantaggio però è già importante, magari ha avuto un rallentamento però poi alla fine il distacco è rimasto corposo. Il Teramo sta facendo benissimo, esprimendo anche un bel gioco ma raggiungere la Samb è difficilissimo».
Guardando la sfida per restare in categoria?
«Ci sono diverse squadre in una manciata di punti e coinvolte squadre blasonate come la Fermana che sicuramente paga la retrocessione dalla C. Una società che ha storia, che ha qualche giocatore importante, che conosco personalmente, e pensavo facesse meglio. Gente come Bianchimano e De Silvestro, che per tanti anni hanno fatto categorie superiori, pensavo riuscissero a dare una svolta diversa alla stagione. In alcuni casi hanno influito anche problematiche esterne al campo, come Avezzano, Isernia, anche a Termoli dove c'è stata qualche avvisaglia, qualche piccola problematica. Ci sono squadre che giocano con molti giovani. Mi aspettavo un campionato di livello più alto anche dall'Atletico Ascoli per espressione del gioco del mister e per modus operandi della società. In netta ripresa c'è il Notaresco che ha un giocatore straordinario».
Giocatore straordinario? Di chi si tratta?
«Parlo di Saveriano Infantino. È un bomber ma anche un uomo spogliatoio. Un ragazzo fantastico che da una grande mano alle squadre e segna in tutti i modi. Un giocatore che ho consigliato a tutti di prendere. Ho rapporto professionale particolare con lui. Credo che il suo arrivo sia stato determinante per la ripresa della squadra».
Allargando lo sguardo, c'è una squadra che ha seguito con maggiore attenzione?
«Sicuramente il Guidonia Montecelio alla cui panchina sono stato molto vicino. Penso sia una società fortissima, con un direttore preparato che ha vinto l'ultimo scudetto della Roma, una squadra strutturata benissimo, veramente importante e bella da vedersi. Una squadra che a me piace molto».
Il movimento calcistico italiano sembra da tempo in crisi. Che idea si è fatto?
«Il miglior conoscitore di una casa è colui che la abita e non chi ne parla dal di fuori. E quindi bisogna stare dall'interno. Io posso parlare per quella che è la mia esperienza. Soprattutto in serie C arrivano calciatori non pronti, anche da squadre Primavera importanti. Questo mi dà l'idea che nel percorso di formazione giovanile si è persa qualche ora dedicata all'insegnamento dei fondamentali tecnici e della tecnica di base. Tutti sappiamo che la tecnica di base sono i movimenti necessari per eseguire un gesto tecnico, il quale gesto tecnico è il rapporto uomo-palla. Se questo concetto uomo-palla è di tre ore settimanali oggi, prima era di tre ore al giorno. Quindi se gioco in un campo sotto casa mia tre ore al giorno è probabile che apprenda di più di quanto possa apprendere lavorando e toccando la palla oche ore a settimana. Indipendentemente del fatto che oggi molti se la prendano con gli allenatori-istruttori, è una questione proprio di tempo. Poi, per essere degli atleti di livello ci sono gli aspetti coordinativi. I giovani col fatto che si sono imborghesiti, non per colpa loro ma perché la vita è cambiata, l'attività si fa solo a pagamento, nelle scuole calcio e non c'è più l'aspetto "selvaggio" nel vero senso del termine di quando si giocava nei prati, ci si rotolava, o si giocava per le strade. E non è un caso che oggi molti atleti di un certo livello arrivino dal continente africano o dal Sudamerica dove questi aspetti sono ancora preponderanti nella vita dei giovani. Io ricordo quando ero ragazzino dopo la scuola calcio, avevamo un campetto sotto casa ed andavo lì con gli amici a giocare fino a notte fonda. Molti giovani queste cose non le sanno perché non le hanno vissute. L'Italia è piena di talenti ma è più difficile che questi crescano in un determinato modo. Nel mio paese mi è capitato ultimamente di vedere dei ragazzini che giocavano tre contro tre su una strada in salita e sono rimasto sorpreso. Anche l'adattamento che serve per giocare in questo modo è fondamentale per lo sviluppo di un calciatore e noi questo lo abbiamo in gran parte perso. E non c'è niente da fare».
Un barlume di speranza?
«Potrei dire il Latina. Sono andato a vedere degli allenamenti del settore giovanile della sezione agonistica del club nerazzurro ed ho visto davvero qualcosa di grandioso. Veramente un qualcosa di bellissimo come non ho mai visto. Quindi, il responsabile del settore giovanile del Latina sta facendo qualcosa di importante. Hanno preso un campo a disposizione, quindi non porzioni di campo. Hanno fasce orario e si allenano ed hanno proposte di allenamento e di miglioramento anche nella mentalità, nell'aspetto nutrizionale importanti. Tante società che hanno le strutture dovrebbero prendere esempio. Questo avviene poco anche laddove c'è la possibilità di farlo».
Ci ha parlato della voglia di vincere un campionato, sarà questo l'obiettivo del suo prossimo club?
«In caso di serie D sicuramente sì. Come ho detto ho voglia di contribuire a vincere un campionato, perché non si vince mai da soli. Se però dovessi accettare una proposta in serie C è evidente che gli obiettivi saranno in linea con quello che è stato il mio target fino ad oggi. Ho avuto offerte, anche da squadre importanti, per fare il direttore tecnico ma preferisco stare a bordo campo».
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