Salone Flying Stars Amputee: quando il calcio è speranza

17.07.2020 01:15 di  Francesco Vigliotti   vedi letture
Fonte: calcio illustrato
Salone Flying Stars Amputee: quando il calcio è speranza

Mohamed Jalloh guarda verso il mare e ripensa ai suoi quindici anni, al villaggio, ai genitori, al fratello. Tutto quanto spazzato via dalla guerra civile che, dal 1991 al 2002, ha sventrato la Sierra Leone.

Il suo villaggio fu attaccato dai ribelli e lui saltò su una mina, rimanendo solo. Il padre e la madre sono morti dopo essere fuggiti e così pure il fratello. Strisciò fino alla città più vicina per chiedere aiuto, dieci chilometri in quelle condizioni prima che il dolore diventasse insopportabile. Dopo tre giorni riuscì a trovare un riparo, poi il ricovero in ospedale e le operazioni per salvargli la vita.

Nel 2003 a Freetown, la capitale del Paese, è stata fondata una squadra di calcio per amputati, il Salone Flying Stars Amputee Football Club, per aiutare chi era rimasto segnato per sempre e solo.

L’idea iniziale era quella di creare una comunità e un posto sicuro dopo la guerra. Per Jalloh è stato molto di più: “Il calcio per noi è fondamentale, forse è difficile da comprendere, ma ci ha dato e ci dà speranza, ci fa sentire parte della società e conoscere nuovi amici. Ogni volta che giochiamo tutti insieme dimentichiamo i nostri problemi e per un attimo anche ciò che abbiamo passato”.

L’orrore di ieri…

Dopo diciassette anni Mohamed Jalloh è diventato il coordinatore del Salone Flying Stars e ha visto passare di tutto da quei campi, soprattutto ragazzi e ragazze (perché non c’è differenza di genere) determinati a dimostrarsi degni di appartenere al club. Alcuni erano stati soldati, la maggior parte erano bambini quando la guerra civile ha devastato la Sierra Leone.

Bai Tarawally oggi è uno degli allenatori e aveva quattro anni quando i ribelli entrarono nel villaggio uccidendo suo padre. Poi si sono barbaramente divertiti ad amputare chi era rimasto, braccia, gambe, mani, dita, orecchie. Quando è accaduto a Bai stava insieme ai suoi due fratelli e alle due sorelle.

La situazione è complessa e una squadra di calcio non risolve i problemi endemici della Sierra Leone, ma rappresenta un rifugio temporaneo, anche se in Africa il tempo scorre in modo diverso. In un Paese dove il 60% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e il 70% dei giovani con disabilità è disoccupato le prospettive sono scarse, per non dire nulle.

Il Salone Flying Stars, però, vuole cambiare le cose:Ci battiamo per ottenere migliori condizioni di vita per tutti gli amputati – afferma Mohamed Jalloh -. Vogliamo allontanare da noi le frustrazioni e lottare per essere riconosciuti, per fare parte integrante della società e della comunità”. Perché spesso, in Paesi come la Sierra Leone, la disabilità rischia di trasformare le persone in esseri invisibili.

Le difficoltà

Il Salone Flying Stars è affiliato allo SLFA, l’organismo governativo che si occupa del calcio. La cosa clamorosa è che la Fifa è intervenuta per fare rispettare la regola per cui i governi non si devono intromettere nelle questioni calcistiche, vietando di fatto l’aiuto alla squadra di calcio degli amputati e dimostrando la classica miopia elefantiaca di chi è abituato più a fare business col calcio che a fare comunità e realizzare progetti per trasformalo in uno sport di base a tutti gli effetti.

Il problema principale per il club è lo scarso sostegno finanziario per coprire i costi di gestione e contemporaneamente la capacità di catalizzare nuovi giocatori. Per questo Mohamed Jalloh si rivolge più spesso alle Ong, ai progetti umanitari e alla loro beneficienza.

In Sierra Leone ci sono anche l’Amputee Sports Club Single Leg e le Flying Eagles, ma è difficile organizzare dei tornei, soprattutto avere i soldi per pagare cibo, trasporti e una piccola indennità a ogni calciatore o calciatrice.

La solidarietà

Per fare questo, nel 2015, i registi Ngardy Conteh e Allan Tong hanno realizzato un documentario sulla squadra portandolo anche al Toronto Black Film Festival per raccogliere fondi da destinare alla squadra, un documentario che è stato mandato in onda da Al Jazeera facendola conoscere in tutto il mondo.

Nel frattempo l’ambasciata irlandese in Sierra Leone ha donato delle macchine da cucire e ciò ha permesso di creare corsi di formazione per sarti e sarte. Questa come quella scolastica è fondamentale per pensare a un futuro diverso e migliore per questi ragazzi, che ovviamente non può passare esclusivamente dal calcio, dato che quello per amputati anche in Occidente fatica a farsi vedere e sentire.

Istruzione, lavoro, medicine e materiale, sportivo e non (dalle stampelle alle protesi per mani, piedi e gambe), i coordinatori, gli allenatori, i ragazzi e le ragazze del Salone Flying Stars hanno bisogno di molte cose, alcune contingenti, altre, invece, in prospettiva.

Poi c’è il calcio che, in tutto questo, potrebbe apparire puro esercizio di stile, invece aiuta a fare nuove amicizie, a non restare soli, ad alleviare stress post traumatici e traumi fisici, grazie soprattutto all’allenamento, rendendo più forti le parti integre del proprio corpo.

Mohamed Jalloh a volte si abbatte e la frustrazione ha la meglio, perché è difficile farsi ascoltare quando per tutto il resto del mondo si è invisibili. Ma resta determinato a vedere i progressi del club, sportivi e formativi: “Ringrazio Dio per avermi salvato dalla morte. Ma le mie, le nostre, condizioni di vita non sono facili e forse non lo saranno mai. Quindi prego perché attraverso il Salone Flying Stars tutto questo possa migliorare”.

E se il calcio non è proprio la luce in fondo al tunnel, il pallone può rappresentare una candela per non perdersi nel buio della disperazione.