Il calcio dilettantistico italiano si trova nuovamente a fare i conti con la propria parte più oscura. L'Angri ha deciso di rompere il silenzio denunciando pubblicamente un episodio che travalica i confini della competizione sportiva per entrare nel territorio della barbarie: durante l'incontro disputato a Sant'Agnello, mentre un ragazzo giaceva a terra privo di sensi, dagli spalti si sono levati cori che inneggiavano alla morte.

La società campana non ha scelto la via della diplomazia né quella del silenzio complice. Ha invece optato per una presa di posizione netta, una denuncia che rappresenta molto più di una semplice protesta: è un grido d'allarme sul degrado morale che sta investendo settori sempre più ampi del movimento calcistico di base.

L'episodio solleva interrogativi inquietanti sulla direzione che sta prendendo un mondo che dovrebbe educare alla convivenza e alla competizione sana. La rivalità sportiva, valore intrinseco della competizione, ha lasciato spazio all'odio cieco. La passione, che dovrebbe essere il motore pulsante di ogni manifestazione sportiva, si è trasformata in veleno che contamina l'atmosfera degli impianti e avvelena le menti di chi dovrebbe invece essere esempio per le giovani generazioni.

Il presidente dell'Angri, Anellucci, ha affidato il proprio pensiero a parole di cristallina chiarezza: «Il rispetto non può essere una scelta. È il fondamento stesso del calcio». Una dichiarazione che suona come un manifesto programmatico in un'epoca in cui troppo spesso si preferisce voltare lo sguardo altrove, minimizzare, giustificare l'ingiustificabile in nome di un malinteso senso di appartenenza.

La denuncia del club grigiorosso arriva in un momento storico particolarmente delicato per il calcio dilettantistico. Ogni settimana si registrano episodi di violenza verbale e fisica, aggressioni a direttori di gara, insulti agli avversari, comportamenti che nulla hanno a che vedere con lo spirito sportivo. Sui campi di periferia, dove migliaia di volontari dedicano tempo ed energie per crescere ragazzi attraverso i valori dello sport, si consuma quotidianamente un'erosione progressiva della civiltà.

Il problema non si limita agli spalti. Si estende ai commenti sui social network, dove l'anonimato offre copertura a insulti e minacce che nel mondo reale farebbero scattare immediate conseguenze legali. Si manifesta nei comportamenti di genitori che trasformano le partite dei propri figli in arene dove sfogare frustrazioni personali. Si annida nei gruppetti organizzati che strumentalizzano la passione sportiva per dare sfogo a istinti violenti.

Le società sportive dilettantistiche, però, nascono con tutt'altro scopo. Nelle scuole calcio si insegna ai bambini a condividere gioie e dolori, a rialzarsi dopo una sconfitta, a tendere la mano all'avversario, a riconoscere il merito altrui. Il calcio, nella sua essenza più pura, rappresenta un atto d'amore verso lo sport, verso i compagni, verso la comunità. Chi tradisce questi principi fondamentali non può pretendere di farne parte.

La posizione assunta dall'Angri merita di essere sostenuta e amplificata. Non si tratta soltanto di una denuncia, per quanto sacrosanta, di comportamenti inaccettabili. È soprattutto un monito rivolto all'intero movimento: occorre tracciare una linea netta tra chi vuole costruire e chi vuole distruggere, tra chi rispetta e chi disprezza, tra chi educa e chi corrompe.

I dirigenti, gli allenatori, i volontari che quotidianamente si impegnano nel calcio di base svolgono un ruolo educativo fondamentale. Sono loro che, lontani dai riflettori, formano caratteri prima ancora che calciatori. Sono loro che trasmettono valori come lealtà, impegno, sacrificio. Sono loro che meritano di essere protetti da un sistema che deve sanzionare con fermezza ogni episodio di violenza o di incitamento all'odio.

Il calcio può continuare a esistere come fenomeno di aggregazione positiva solo se coloro che ne fanno parte mantengono saldo il legame con l'umanità. Un pallone può rotolare su un campo verde solo se attorno a quel campo ci sono persone capaci di distinguere la competizione dall'odio, la rivalità dal disprezzo, la passione dalla barbarie.

L'episodio di Sant'Agnello rappresenta l'ennesimo campanello d'allarme. La speranza è che non cada nel vuoto, che non venga derubricato a episodio marginale, che non finisca dimenticato nel giro di pochi giorni. Serve una reazione collettiva, che parta dalle istituzioni sportive e arrivi fino all'ultimo tifoso, per ribadire che certi comportamenti non possono trovare spazio in nessun contesto.

L'US Angri ha scelto di esporsi, di alzare la testa, di dire ad alta voce ciò che molti pensano ma in pochi hanno il coraggio di dichiarare pubblicamente. Questo coraggio merita rispetto e sostegno. Perché solo attraverso prese di posizione nette si può sperare di invertire una tendenza che sta degradando uno dei fenomeni sociali più importanti del nostro Paese.

Il messaggio lanciato dal club campano deve risuonare in ogni spogliatoio, su ogni spalto, in ogni sede societaria: quando il rispetto manca, il pallone deve smettere di rotolare. Non esiste risultato, non esiste classifica, non esiste rivalità che possa giustificare la perdita di umanità. E chi non è disposto ad accettare questo principio fondamentale semplicemente non merita di far parte del mondo del calcio.

Sezione: Eccellenza / Data: Mer 05 novembre 2025 alle 23:15
Autore: Redazione NotiziarioCalcio.com / Twitter: @NotiziarioC
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